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Letto dal 16 giugno al
10 agosto 2017
Il mio voto:
Nessun uomo è
un’isola, diceva, più di quattro secoli fa, John Donne, splendido nella sua
certezza che siamo talmente tutti parti dell’umanità che anche quando la
campana suona per annunciare la morte di qualcuno, non suona solo per lui, ma anche
per noi.
Contradirebbe L’isola di Arturo, il piccolo romanzo di
Elsa Morante, quest’idea? A prima vista, il suo maggior tema pare la solitudine.
Arturo, l’io narrante si vede solo e orgoglioso come la stella della figura di
Boote che porta il suo nome, come il leggendario re dell’antichità. Da sua
madre, morta alla sua nascita, non tiene che una foto presa da un fotografo
ambulante: “Figurina stinta, mediocre, e quasi larvale; ma adorazione
fantastica di tutta la mia fanciullezza.” Suo padre, benché molto vivo, non è
mai vicino a lui, visitatore talmente sporadico e disinteressato che diventa
per il suo figlio una figura mitologica, intangibile, sacra.
L’isola stessa in cui
cresce come un piccolo selvaggio ha un’aria oscura e ostile, avvolgendosi
intorno a lui piuttosto minacciosamente che protettivamente. Così, Arturo cresce
da solo, si educa da solo, portando nonostante in cuore un ideale maschile in
suo padre assente e uno femmine in sua madre morta. Ma come tutto giovane ha
bisogno non solo di modelli ma anche di limite e regole a rispettare e, in
assenza a un guida dei genitori il ragazzo intelligente e autodidatta si crea da
solo un “Codice della Verità Assoluta”, commoventemente influenzato delle sue
letture disparate (i maiuscoli sono tutti suoi):
"I. L’AUTORITÀ DEL
PADRE E SACRA!
II. LA VERA GRANDEZZA
VIRILE CONSISTE NEL CORAGGIO DELL’AZIONE, NEL DISPREZZO DEL PERICOLO, E NEL
VALORE MOSTRATO IN COMBATTIMENTO.
III. LA PEGGIOR
BASSEZZA È IL TRADIMENTO. SE POI SI TRADISCE IL PROPRIO PADRE O IL PROPRIO
CAPO, O UN AMICO ECC., SI ARRIVA ALL’INFIMO DELLA VILTÀ!
IV. NESSUN
CONCITTADINO VIVENTE DELL’ISOLA DI PROCIDA È DEGNO DI WILHELM GERACE E DI SUO
FIGLIO ARTURO. PER UN GERACE DAR CONFIDENZA A UN CONCITTADINO SIGNIFICHEREBBE
DEGRADARSI.
V. NESSUN AFFETTO
NELLA VITA UGUAGLIA QUELLO DELLA MADRE.
VI. LE PROVE PIÙ
EVIDENTI E TUTTE LE ESPERIENZE UMANE DIMOSTREREBBERO CHE DIO NON ESISTE."
Ovviamente, questo
piccolo gioiello romanzesco è un bildungsroman,
seguendo dunque processo di maturità di Arturo, processo ne più ne meno
doloroso di altri maturazioni, sia nella vita reale oppure letteraria, in cui
le sue certezze assolute saranno messi in dubbio e alcune crolleranno per sempre.
Come ogni giovane, lui
dovrà affrontare soprattutto due prove difficili: la separazione della famiglia
e il tormento del primo amore. L’amore che Arturo prova per la sua matrigna,
solo due anni più grande di lui, finisce quasi nello stesso tempo in cui,
rendendosi conto che il suo dio ha piedi d’argille, l’ammirazione che provava
per suo padre si trasforma in delusione:
"Può darsi, in
coscienza, ch’io non abbia mai amato sul serio W. G. E in quanto a N., chi era,
poi, questa famosissima donna? una povera napoletanella senza niente di
speciale, come a Napoli ce ne sono tante! (…)
Da questa infinita
distanza, adesso, ripenso a W. G. Me lo immagino, forse, più che mai
invecchiato, imbruttito dalle rughe, coi capelli grigi. Che va e torna, solo,
scombinato, adorando chi gli dice parodia. Non amato da nessuno — giacché
perfino N., che pure non era bella, amava un altro... E vorrei fargli sapere:
non importa, anche se sei vecchio. Per me, tu resterai sempre il più bello."
Così, superando le
due prove, Arturo si separa non solo del suo passato, ma anche della sua
solitudine, lasciando in dietro la sua isola per s’offrire, insieme a un suo
primo amico (chi è, non a caso, anche il suo primo tata) al mondo, rimanendo
magari fedele alla sua seconda verità assoluta, finché vede nella guerra il
luogo ideale per testare il suo coraggio.
Pubblicato nell’anno 1957,
questo secondo romanzo di Elsa Morante sembra un esempio puntuale del
neorealismo, sia in termini di struttura e di stile. Lo prova la descrizione splendida,
ricordando la scrittura di Balzac con il suo passaggio dal generale al
particolare, delle isole “del nostro arcipelago” disseminate sul mare
napoletano alla casa del narratore. Comunque, l’isola Procida con le sue strade
senza sole, “chiuse fra muri antichi”, con le case vecchie “severe e tristi”,
con uomini taciturni e scontrosi, infausti, ostili ai forestieri, con donne che
portano dei vestiti lunghi e un scialle sulla testa e che considerano un
peccato non solo bagnarsi nel mare ma anche vedere altri farlo, isola dominata
del castello-penitenziario (“uno dei più vasti, credo, di tutta la nazione”), sembra
un luogo afoso, ma allo stesso tempo seducente, come la Foresta Proibita delle
fiabe; il realismo sembra dunque cedere il passo, poco a poco, alla magia.
Ci sono anche altri
elementi che fanno discretamente il passaggio dal neo-realismo al
neo-modernismo, come per esempio l’io narratore che sostituisce il narratore
onnisciente, e un certo dubbio sulla credibilità dello stesso narratore, i cui
ricordi sono sfocati dal tempo:
"A distanza di tanto
tempo, adesso io vado tentando di capire i sentimenti che, in quei giorni,
cominciavano ad accavallarsi stranamente nel mio cuore; ma tuttora mi trovo
incapace di distinguere le loro forme, che si mischiavano in disordine dentro
di me, e non erano illuminate da nessun pensiero."
In fine, l’immagine
finale, dell’isola che sparisce nel largo del mare, e solo apparentemente
simmetrica, perché non esista veramente un passaggio inverso dal particolare al
generale, solo l’immensità dell’acqua che rimpiazza, entrambi per gli occhi e
per il cuore di Arturo, l’isola Procida.
"Come fui sul sedile
accanto a Silvestro, nascosi il volto sul braccio, contro lo schienale. E dissi
a Silvestro:
— Senti. Non mi va di
vedere Procida mentre s’allontana, e si confonde, diventa come una cosa
grigia... Preferisco fingere che non sia esistita. Perciò, fino al momento che
non se ne vede più niente, sarà meglio ch’io non guardi là. Tu avvisami, a quel
momento.
E rimasi col viso sul
braccio, quasi in un malore senza nessun pensiero, finché Silvestro mi scosse
con delicatezza, e mi disse:
— Arturo, su, puoi
svegliarti.
Intorno alla nostra
nave, la marina era tutta uniforme, sconfinata come un oceano. L’isola non si
vedeva più."
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