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Letto dal 12 al 26 marzo 2014
Il mio voto:
Ragni e lucciole
Com’era generosa e
affascinante quell'epoca frenetica della “littérature engagée” che investiva
l’autore non solo con l’autorità di diventare la portavoce della Storia ma
anche con la capacità di influenzare le masse! Com’era seducente e quanti
scrittori l’hanno corteggiata, tra cui Llosa, Calvino e tanti altri. Anche se
dal loro giovane entusiasmo non sono nate capolavori, ci hanno regalato comunque
qualche opera rimarcabile, lontana dall’ideologismo assurdo che prolifererà
sotto il nome di realismo socialista nei paesi communisti dopo la Seconda
Guerra.
Certo, Il sentiero
dei nidi di ragno non è espressionista nel senso sartriano della parola, ma
neanche troppo neo-realista lo è, e ovviamente lontano del senso peggiorativo
del termine. Nella prefazione, l’autore lo chiama, più adeguatamente,
neo-espressionista, ma gli aggiunge una dimensione magica quando sceglie la
perspettiva di un bambino, Pin, quello che dà alla narrazione quel “tono
fiabesco” rimarcato da Cesare Pavese, spiegando nello stesso tempo l’inclusione
dell’Isola del tesoro, di Stevenson, tra i modelli letterari che hanno
influenzato il romanzo, accanto a Per chi suona la campagna, di Hemingway,
L’armata a cavallo, di Babel e La disfatta, di Fadeev, libri che,
soprattutto gli ultimi due, ad un primo sguardo sembrano più appropriati,
siccome evocano sia la Guerra di Spagna sia la Guerra civile di Russia.
Detto questo, ammetto
che ho trovato difficile (e frustrante!) aggiungere altro all’autoanalisi
estensiva e pertinente che Calvino fa nella prefazione, soprattutto visto che,
di solito, mi fa un enorme piacere di provare che l’interpretazione che dà del
solito l’autore alla sua opera è incompleta e a volte anche di sbieco. Beh, non
è il caso qui – tutto è coperto, dalla motivazione (scrivere un libro sulla
Resistenza come non è mai stato scritto), fin alla spiegazione della sua scelta
dei personaggi e della trama (da una parte rispondere a quelli che credevo che
la Resistenza abbia fatto crescere la delinquenza e mostrare che anche i
peggiori partigiani si sono gettato nella lotta, d’altra parte polemizzare con
la “cultura di sinistra”, con il suo eroe positivo e le sue immagini normative,
pedagogiche e di condotta sociale).
Dunque, che si può
dire di più? Forse che la scelta di Pin come narratore indiretto ha una seconda
motivazione oltre all’identificazione con l’autore, che confessa di essersi
sentito alieno e troppo intellettuale tra i partigiani, il mondo di cui gli pareva
tanto incomprensibile quanto il mondo dei grandi a Pin. E questa seconda
motivazione, sostenuta dal leitmotiv della nebbia che più di una volta avvolge
paesaggi e personaggi, suggerisce che le azioni dell’uomo catturato nel vortice
della Storia non hanno mai una spiegazione chiara in quel momento critico – che
solo dopo il suo sacrificio guadagnano valore, benché non necessariamente un
valore politico o sociale (che è piuttosto una giustificazione per guerre e
violenze future), ma almeno un valore letterario come in quell’immagine finale
della Casa in collina in cui si riconosce solo ai morti il diritto di
parlare, giudicare e mettere fine alla violenza.
E così, le due
visioni apparentemente opposte sulla guerra di Calvino e Pavese, l’una attiva e
l’altra passiva, portano alla stessa conclusione: che non esiste un’altra
evasione dalla crudeltà della contingenza e dall’assurdità della Storia che la
trasposizione in “illo tempore”, dove le azioni e gli uomini ottengono valore
esemplare, dove nascono e si muoiono gli eroi, dove si può mantenere
un’illusione di grandezza, dove lucciole e colonne di Partenone si contemplano
sempre da lontano:
- C'è pieno di lucciole, - dice il Cugino.
- A vederle da vicino, le lucciole, - dice Pin, - sono bestie schifose anche loro, rossicce.- Sì, - dice il Cugino, - ma viste cosi sono belle. E continuano a camminare, l'omone e il bambino, nella notte, in mezzo alle lucciole, tenendosi per mano.
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