– e-book
Letto dal 5 ottobre al 2 novembre 2015
Il mio voto:
54 è il secondo romanzo di Wu Ming che ho letto, dopo Q, e devo dire che mi sono spesso
divertita, durante le entrambi letture, a immaginarmi le discussioni hot tra gli autori che l’hanno scritto, mentre
si attribuivano le storie, cercavano ganci narrativi appropriati oppure facevano
delle ricerche sugli eventi storici da distorcere oppure contradire come si
addice a ogni opera postmodernista degna del suo nome.
Un’amica mia, nella
sua eccellente recensione su GoodReads, aveva paragonato
la struttura di questo romanzo a uno stile particolare di mischiare le carte da
gioco, da quale risulta un miscuglio così ordinato che aspira alla perfezione.
Comparazione molto adatta per un romanzo in cui i tre fili narrativi intrecciano
senza confondersi quasi mai, in una rappezzatura creata così artificialmente
che ogni ingrediente si può separare senza problemi. Risulta che il lettore sia
capace di seguire, se lo vuole, solo una di tre storie (sia quella di
Robespierre, di Salvatore Lucani o di Cary Grant) e ignorare quelle che non gli
piacciono, senza nessuna paura di perdere dettagli importanti saltando le
pagine.
E questo, devo
riconoscerlo con infinita vergogna, l’ho fatto a volte io stessa, non solo perché
le avventure mafiose mi sono sembrate abbastanza banali, persino noiose, ma
anche a causa della piattitudine dei personaggi, ridotti ai simboli leggermente
caricaturali del male e la punizione di cui alla fine ha tutti gli ingredienti
di un romanzo (oppure un film) penny
dreadful:
Zollo si alzò e prese a camminare con calma, un passo dopo l'altro, verso l'ombra che stava avanzando. Non c'era più nessuna fretta.Vide Vic alzare la pistola.Zollo prese la mira e svuotò il caricatore senza fermarsi.Il terzo colpo andò a segno: vide il cervello di Vic schizzare per aria. Addio, goombah.Cadde in ginocchio.Il sangue impregnava la camicia. Quanti ne aveva incassati? Due, tre? Vic era un buon tiratore. Si ritrovò a fissare le ultime stelle che si spegnevano, lassù in cima.
Infatti, le tre linee
narrative parodiano ciascuna un genere romanesco: gotico – le trasgressioni di
Lucky Luciano, spionaggio – le avventure Cary Grant e bildungsroman – “la vita
e le opinioni” di Pierre Capponi.
Comunque, neanche
Cary Grant non riesce ad abbandonare sullo schermo la sua immagine
bidimensionale, anche se le intenzioni degli autori (ironizzare l’abitudine del
pubblico di confondere l’illusione offerta dalla società consumerista con la
realtà) sono abbastanza chiare. Le sue avventure rocambolesche con una
saturazione di trucchi arci conosciuti – attentato, rapimento, sosia, servizi
secreti e così via – restano in qualche modo in sospensione tra parodia e
melodramma – dove forse la parodia è a volte meno convincente del
melodramma.
Cary gli porge la mano per primo, in segno di gratitudine. Il ragazzo lo prega di non informare le guardie della loro presenza sull'isola.—Cross my heart! risponde Cary segnandosi il cuore con un dito.Dietro di lui, un bodyguard sta provando a svegliarsi.
La storia più
interessante (benché anche qui gli autori ricorrano un po’ troppo al
sensazionale) è quella di Robespierre Capponi (detto Pierre) che è inoltre uno
dei guanci narrativi, visitando sporadicamente le altre due storie (ha un
incontro improbabile con Cary Grant ed è testimone oculare al confronto risolto
con la morte dei mafiosi). Pierre ha tutte le caratteristiche dell’eroe
romantico come l’abbiamo imparato a scuola, cioè eccezionale in circostanze
eccezionali, ma ovviamente filtrato attraverso l’ironia postmodernista, fatto
che conduce ad un contrasto interessante tra l’abbondanza delle sue avventure e
una certa linearità della sua vita interiore:
Non rivedrò più nessuno.Sono un uomo in fuga.Ma ho i soldi, e una nave da prendere.Me ne vado dove mi trova posto Paolino, poi contatto il babbo e gli dico di venire anche lui.Un uomo in fuga.Pierre si fermò a vomitare. Giurò che non avrebbe mai più vomitato in vita sua.Non vedeva un cazzo. Quando sarebbe sorto il sole?
Il più originale
carattere resta senz’altro il televisore a nome preso in prestito dal gergo
cineasta, McGuffin. McGuffin, nonostante il suo ruolo complesso di specchio
silenzioso, di strumento per la mise en
abîme, di guancio narrativo, e persino di cornice incerto tra finzione e
realtà ogni volta che diventa una “canna pensante”, ha, nell’economia del
testo, la stessa funzione che gli hanno attribuito i registi e di cui parla
Wikipedia: “un motore virtuale e pretestuoso dell'intrigo, un qualcosa che per
i personaggi del film ha un'importanza cruciale, attorno al quale si crea
enfasi e si svolge l'azione, ma che non possiede un vero significato per lo
spettatore.”
Tuttavia, occhio
magico del testo, McGuffin si rivela una bellissima metafora del pericolo che
minaccia l’arte e che sembra essere il vero tema di 54: cioè, il pericolo di essere dimenticata da un pubblico che la sostituisce
sempre di più con il kitsch, tutto come il romanzo ha ridotto i grandi temi
letterari in pulp fiction:
Destino crudele! Abituato ad allietare il pubblico con immagini rassicuranti, ritrovarsi muto testimone di squallori e violenze. Senza nulla da opporre. Vuoto davanti al vuoto.L'inutile schermo da diciassette pollici pareva riflettere ancora le ultime scene, consumate senza pudore davanti al suo occhio spalancato.
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