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Letto dal 29 giugno al 13 luglio 2015
Il mio voto:
Non leggo spesso
libri di viaggio. Forse è una reminiscenza della mia infanzia, quando saltavo sistematicamente
le descrizioni per arrivare più velocemente ai dialoghi. O forse avevo un’idea
preconcetta che un libro del genere è una longa sfilata di paesaggi che finirà
per annoiarmi.
Niente di più
sbagliato nelle mie percezioni, come l’ha dimostrato l’eccellente collezione di
racconti di viaggio scritta da Fabio Bertino e Roberta Melchiorre e che ci
porta un po’ dappertutto, non solo nello spazio geografico ma anche negli spazi
sociali, culturali, storici.
Undici storie (se ho
ben contato) che zigzagano a traverso il mondo, cominciando con la glossa
stridente e opprimente delle Cartoline
turkmene (la mia favorita) per finire vicino a casa, con i pupi scoperti
inaspettatamente un giorno piovoso in Sicilia. Accompagnate d’immagini stupende
e souvenir pittoreschi, le storie prendono vita davanti ai nostri occhi
ammaliati, facilitando l’incontro sia con un ridicolo dittatore, sia con un
direttore di banca che è anche cassiere, sia con una vecchia che conosce il
linguaggio delle scimmie meglio di quello degli uomini, sia con una coppia che
vive letteralmente in un treno.
Ricca d’informazioni
inaspettate e di grande interesse, piena di sensibilità e di forza evocativa,
la lettura si dimostra pienamente gratificante. Come si potrà mai dimenticare,
dopo una tale lettura, l’immagine stagnata di Ashgabat, la capitale del
Turkmenistan, diventata il palco principale per il culto della personalità
dell’infatuato dittatore Saparmyrat Nyazov, aka Turkmenbashi (“il padre di
tutti i Turkmeni”)? Qui si trova l’unico monumento al mondo dedicato a un libro
– ovviamente un libro scritto dal presidente e che è diventato testo canonico
da studiare in scuola. Qui si trova la statua abbagliante dello stesso Nyazov,
placata in oro, vero simbolo di orgoglio e vanità, che, le braccia aperte, fa
finta di tenere in mano il sole per suggerire che è lui chi l’ha domato per regalare
la luce al suo popolo (conosco bene, sfortunatamente, questa infatuazione, che
mi ricorda una canzone popolare da noi nel periodo comunista che pretendeva che
il sole sorge da Bucarest).
Dal presente totalitario
turkmeno si passa senza transizione al passato tradizionale (benché un po’
corrotto dalle domande della società dei consumi), qualche parte nel cuore
dell’Australia, ad Alice Springs, dove il narratore assiste a un concerto di
didgeridoo, una sorta di flauto, strumento aborigeno dell’estremo nord del
continente. La descrizione dello show, combinando immagini e suoni, è piena di
colore e di vivacità:
A tratti i richiami all’elettropop anni Ottanta sono forse un po’ eccessivi, ma nell’insieme le show è una rilettura degli echi antichi del didgeridoo. A rievocare la magia del Tempo del Sogno contribuiscono le immagini che scorrono sullo schermo al lato del palco. Rocce rosso fuoco, scorci di deserto, impronte nella sabbia. A ogni brano Langford cambia strumento, spiegando le caratteristiche di ognuno, e verso la fine estrae addirittura un incredibile didgeridoo doppio ricavato dalla biforcazione di un grosso ramo di eucalipto. (Concerto ad Alice)
Dopo la
contemplazione di qualche giara gigantesca in Vietnam, seguita dall’incontro
con una vera regina in Camerun, da una cerimonia d’inaugurazione di un
monumento in Mozambico (molto bella la sfilata delle maschere) e dalla visita
di una piccola basilica paleo cristiana del VI secolo in Erevan, la prossima
fermata si fa a Burkino Faso, dove, accompagnato da Olivier, il direttore/
impiegato/ cassiere dell’unica banca di Dano, il narratore assiste a un
funerale tradizionale, interrotto improvvisamente da un evento cosi popolare che
tutti gli abitanti del villaggio lasciano la cerimonia per assisterci: Il Tour de Faso, uguale, agli occhi dei
locali, al Tour de France. Un’istantanea
molto divertente sorprende l’incongrua apparizione del narratore in centro a
tutta questa gente:
La folla forma un muro nero, uniforme, in cui il mio volto spicca come un fanale bianco. (…) Passa un ciclista con un scritta in tedesco sulla maglia e mi fissa stupito. Un altro, biondissimo, mi supera, si volta e per poco non finisce fuori strada. Dalle auto delle squadre spuntano braccia pallide che fanno grandi cenni di saluto. (Tamburi e biciclette)
Ovviamente, dopo che
i ciclisti passano, il funerale continua.
Molto bella anche
l’evocazione dell’Opera di Pechino, l’atmosfera unica di cui è catturata con
abilità e sensibilità in un’originale alternanza tra palco e strada, uomo e
attore, illusione e realtà.
Il libro si chiude
genialmente, con un guazzabuglio di pezzi di pupi (“sparsi qua e là noto
punteruoli, martelli da sbalzo, volti in faggio appena abbozzati, scheletri di
futuri paladini”), - un’invitazione al viaggio come unica soluzione per
completare il puzzle d’immagini offerti dai racconti: i narratori hanno fatto
il loro lavoro, risvegliando nel nostro cuore la nostalgia delle lontananze.
Ora tocca a noi di emularli.
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